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Quando muore chi ci è caro siamo gettati improvvisamente in una dimensione extra-ordinaria. Una dimensione cioè che ordinariamente non attraversiamo, alla quale forse gettiamo l’occhio solo di sfuggita, quando la cronaca o fatti, che toccano persone a noi più o meno vicine, ci richiamano alla drammaticità della possibilità nella nostra vita di essere così toccati nel profondo, come la morte sa fare.

Quando però capita proprio a noi, quella dimensione fuori dall’ordinario, extra-ordinaria in questo senso, diventa ordinaria quotidianità. Per ore che sembrano giorni, per giorni che sembrano mesi e per mesi che sembrano anni ci sentiamo come sospesi, con i piedi staccati da quella terra delle nostre certezze, che fino a poco prima ci sembrava così battuta, quasi scontata, così inattaccabile.

Tanto più se chi ci lascia è qualcuno che abbiamo amato. Dal quale ci siamo sentiti amati, visti, presi in considerazione. Freud diceva che “mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l’oggetto amato o il suo amore, siamo così disperatamente infelici” (Freud, 1929, OSF p.574).

Sono tanti i sentimenti che si sovrappongono dentro di noi: la malinconia immediata per la perdita di un volto, di un sorriso, di un affetto sul quale sapevamo di poter contare o che perlomeno sapevamo esistere a rischiarare le ombre di questa terra; la colpa per non aver potuto far nulla e forse anche per non aver potuto, in taluni casi, scambiare il nostro posto con quello della persona perduta; la paura per il futuro, per l’incertezza di ciò che sarà la nostra esistenza, di ciò che maturerà dentro di noi in conseguenza di quella perdita così importante.

Tutti questi sentimenti hanno bisogno di un cuore che li accolga. Ma il cuore di chi?
E’ il nostro stesso cuore che ha bisogno di dilatarsi e di fare spazio a tutti questi nuovi sentimenti, che non possono e non devono essere censurati. Se infatti proviamo a censurare, a nascondere a noi stessi la sofferenza che proviamo, provochiamo un’altra morte: la morte di quelle parti nostre che, proprio perché vengono tirate fuori dalla perdita di chi è stato per noi fondamentale, sono intrinsecamente legate a quella perdita, traggono da quella perdita la loro stessa esistenza.
Ecco allora come noi possiamo veramente provare ad affrontare, ad elaborare ed a superare il lutto: permettendo alle nostre emozioni, ai nostri sentimenti ed a tutti i pensieri che da quella perdita sono scaturiti, potremmo dire che da quella perdita sono nati, di crescere e svilupparsi dentro di noi, riempiendo quel vuoto che altrimenti rimarrebbe soltanto disperazione.

Gridare il proprio dolore e piangere tutte le lacrime che servono per raggiungere traguardi gioiosi. Questo è lo scandalo cui la morte ci pone innanzi: o soccombiamo con essa oppure da essa maturiamo le risorse per raggiungere una nuova nascita. Se pensiamo alle religioni, indipendentemente dal credo o dalla fede di ciascuna, ma anche alle diverse filosofie, quasi tutte riflettono sulla morte e suggeriscono un percorso di elaborazione della perdita attraverso la rinascita in una nuova forma del rapporto che c’era prima.

Allora questo percorso di rinascita significa, dentro ciascuno di noi, poter mantenere quei legami affettivi che abbiamo sentito importanti mentre li abbiamo condivisi nella vita. Mantenere un rapporto interno con quelle parti dell’altro, che abbiamo sentito riverberare dentro di noi e che pertanto possiamo riconoscere come parti profondamente nostre. Amiamo nell’altro quello che ci corrisponde e, tanto più attraverso la morte, dobbiamo accettare la sfida di riconoscere che ciò che abbiamo tanto amato è sempre stato dentro di noi e la bellezza di quel rapporto è consistita proprio nel farci sperimentare come vive e presenti parti nostre di cui fino a prima di quella relazione non avevamo ancora “sentito l’odore”.

Ma allora elaborare un lutto è un percorso facile, perché ciò che abbiamo perso è già dentro di noi? Purtroppo no. Elaborare un lutto è quanto di più difficile ci viene chiesto dalla vita. È un percorso umano, ma un percorso in salita e quando bisogna salire occorre attrezzarsi ed essere accompagnati da qualcuno che di salite se ne intende: un professionista dell’ascolto, una persona che dedica la sua vita con serietà ad accompagnare nei momenti nodali dell’esistenza.

Meglio rivolgersi, anche solo per fare una chiacchierata di sfogo, a una persona esterna, neutra, che possa accogliere tutto il nostro dolore e, con tatto e delicatezza, possa aiutarci a mettere una luce dall’interno, proprio per ritrovare quelle parti che crediamo di aver perso con il lutto e che invece sono dentro di noi e chiedono soltanto di potersi esprimere.

Dott.ssa Anna Daniela Linciano
Medico Psichiatra e Psicoterapeuta
Milano

16 pensiero su “Quando muore chi ci è caro”
  1. Che bel commento! Grazie! Ci porta a riflettere su una salita , anzi una scalata che prima o poi tutti dobbiamo fare.

    1. Sono scalate che la vita chiede a tutti, è vero, eppure nessuno riesce ad giungervi preparato. Ecco perchè diventa importante farsi accompagnare nel momento del bisogno.

  2. Gridare il proprio dolore e piangere tutte le lacrime che servono per raggiungere traguardi gioiosi.
    E’ proprio vera questa frase; a volte noi , pur lavorando molto vicini a chi soffre, non comprendiamo che il gridare il proprio dolore non è uno scandalo o segno di debolezza ma l’unica possibilità di passaggio ad una pace e serenità di accettazione del destino dell’altro.

    1. Gridare il proprio dolore non deve scandalizzare perchè siamo esseri umani, quindi non siamo onnipotenti. Il dolore e la sofferenza fanno parte della vita, vanno affrontati e non censurati.Certo è che ci vuole coraggio, il coraggio di guardare in faccia la vita, magari anche di farsi aiutare , il coraggio che serve per essere felici.

  3. bella analisi di un momento triste della vita. Da rileggere più volte per assimilarne lentamente i profondi contenuti. Grazie

    1. Penso anche io che alle cose importanti non vada negata la calma nell’approccio e la possibilità di ritornare a guardarle in momenti che si susseguono, intervallati dal tempo in cui si approfondiscono le proprie riflessioni.

  4. Daniela riesce a esprimere con parole semplici un mondo di profondità e di affetti di fronte al più grande dolore della vita. Ci insegna a ‘portare in noi’ chi ci è caro, per sempre.
    Complimenti.

    Pierluigi Moressa

    1. ‘Portare in noi’ per preservare una relazione significativa, ma soprattutto per esprimere appieno noi stessi.

  5. Cara Daniela Lei riesce ad esprimere con un linguaggio incisivo, semplice e chiaro, ciò che si prova in relazione alla perdita di persone care. Credo che anche nelle separazioni si possano provare analoghe emozioni, talvolta ancora più intense. Quanto più si è amata una persona tanto più è doloroso e difficile il distacco. Con la fantasia la si vorrebbe riportare in vita o nuovamente presente. Ma il tentativo è effimero e destinato a fallire come fallì Orfeo che nel recuperare Euridice dall’Ade la fece precipitare negli inferi volgendosi inopportunamente verso di lei.

    1. Orfeo ci sia di monito perchè possiamo imparare che, per recuperare ciò che ci è stato caro, dobbiamo prima guardare con sensibilità e profondità dentro di noi e sintonizzarci sulla giusta modalità, che ci permetterà di accogliere l’altro con abbraccio forte, mai violento.

  6. Grazie, cara dottoressa, per il richiamo a non soffocare il nostro disagio, dentro la situazione affrontata in questa rubrica così come di fronte a qualsiasi circostanza della vita, riducendolo ad una inevitabile tappa, nell’attesa che il tempo medichi la ferita. La lealtà con la nostra natura di uomini e donne, fatta di domanda di significato e di desiderio di eternità anche di fronte all’evidenza della morte, introduce , prima o poi, l’ipotesi del mistero dell’esistenza umana. Il lavoro della vita sarà allora quello di scoprire, proprio a partire da queste stesse circostanze (e in questo senso i lutti costituiscono il richiamo più forte) chi esso sia.

    1. Cara Laura, da quello che scrivi si sente che sei una persona coraggiosa, che non si tira indietro nella vita. Dici molto di te in questo commento, esprimi con chiarezza ciò che vivi, testimoniando così un’opportunità per tutti. Ti ringrazio: hai approfondito e reso più chiaro quello che io stessa ho cercato di comunicare.

  7. Cara Daniela, ho letto su invito di un’amica e mi sento chiamata qui a cercare spazi di risonanza. “Riempire quel vuoto che altrimenti resterebbe soltanto disperazione” tu dici… e quando ormai il tempo ha sepolto e portato con sè tutto il vuoto, senza lasciare conforto di sorta; quando la vita, che sempre va avanti, si è lasciata vivere stringendo via via quello spazio da riempire, quasi senza pensiero… Quando la disperazione si fa voce parlante attraverso le nostre azioni… Allora, ti chiedo, quale è il margine per aprire un difficilissimo varco?

    1. Credo che il margine sia proprio partire dalla domanda, cara Monica, che ancora è viva, altrimenti non saresti qui a parlarmene. Se c’è una domanda c’è un desiderio di ricostruire ed è importante seguirlo come il filo di Arianna, che può permettere di uscire dal labirinto del dolore. Una figura esterna, che non giudichi quello che tu senti mancare, ma che faccia appello a ciò che c’è, a ciò che tu porti: il coraggio, che ti ha fatto scrivere ed infilare una piccola leva nello spazio stretto di cui parli, e questo coraggio è indispensabile per essere felici. Forza, seguilo!

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