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Oggi giorno è possibile acquistare una varietà di abiti e accessori già decorati con toppe. Esistono toppe di ogni forma e tessuto e anche decorate con glitter che cambiano di colore (come le B-Queen Glitter Pacht di De Agostini Publishing) con cui personalizzare abiti, zaini, astucci, quaderni, diari e ogni superficie. Blue mermaid, gold e pink-fluo sono tra i colori fashion, con tante forme.

L’applicazione è diventata facile, oltre al classico ago e filo sui tessuti, c’è un biadesivo da fissare con l’alta temperatura (ad esempio, con il ferro da stiro). Cuore, fiocco, stella, due faccine, banana, ciliegia, bacio, teschio, ananas e un lettering con il classico “Love” tra i simboli.

Origine delle toppe

Utilizzate in passato solo per coprire i buchi sugli abiti logori ed etichettare le persone in uniforme, per riconoscere chi contava in campo militare: prima, durante la guerra anglo-americana del 1812 e successivamente durante la Guerra Civile del 1861-65, tra il 1960 e il 1970 divennero poi un segno di riconoscimento degli abiti folk degli hippies con sopra dei simboli che caratterizzarono un’epoca: la pace, il pugno, la a anarchica, l’amore.

Una sorta di marchio di appartenenza che poi negli anni, con altri decori – come spille e borchie – e altri simboli si trasmise alla controcultura dei pieni anni ’70. Al timone del punk britannico si piazzò Vivienne Westwood: invece di patch ricamate con segni di pace e fiori, i punk di strada indossavano toppe di stoffa delle loro band preferite.

Negli anni ’80 e ’90 le toppe erano usate per riparare i jeans strappati: alcune erano molto semplici, altre originali e coloratissime, decorate con strass e paillettes. Quando si è diffusa la moda dei “jeans destroyed” sono praticamente sparite. Recuperate poi nel decennio successivo da designer all’avanguardia come Martin Margiela, Ann Demeulmeester, Helmut Lang, Rei Kawakubo e Raf Simons. Quest’ultimo è particolarmente amante del punk patch: nel suo lavoro, la toppa è tornata oggi come espressione di anticonformismo.

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