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Società scientifiche di ginecologia e ostetricia chiedono che, in caso di necessità, in pieno periodo di coronavirus, si ricorra maggiormente all’aborto farmacologico anziché a quello chirurgico. Ciò servirebbe a tutelare la donna, a decongestionare gli ospedali e a liberare preziosissime risorse.

A tutela e salute, dei diritti delle donne anche in piena emergenza sanitaria da Coronavirus, le società scientifiche di ginecologia e ostetricia si dichiarano favorevoli a una maggiore diffusione dell’aborto farmacologico. L’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), infatti, è tra le procedure considerate “indifferibili” dal Decreto ministeriale del 3 marzo scorso e, come tale, deve essere garantita anche in questo periodo.

I ginecologi: «Favorire l’aborto farmacologico»
In questo particolare contesto storico è doveroso attuare sia le procedure sanitarie improrogabili, come l’interruzione di gravidanza, sia le misure indispensabili a contenere e contrastare il diffondersi della pandemia. A tal proposito, i ginecologi di SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia), AGUI (Associazione Ginecologi Universitari Italiani) e AOGOI (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri) chiedono che, in caso di necessità, si ricorra maggiormente all’aborto farmacologico. Questo, meno praticato rispetto all’aborto chirurgico, permetterebbe di decongestionare gli ospedali, liberare le sale operatorie e alleggerire il lavoro di numerose risorse, già impegnate duramente sul fronte Coronavirus.

Il percorso tradizionale dell’aborto chirurgico, spiega il Presidente AGUI Nicola Colacurci, prevede numerosi accessi ambulatoriali. Questi sono necessari per la certificazione e la datazione, per le indagini pre-operatorie e per l’esecuzione stessa della procedura. Ciò, continua il professore, espone la donna a un numero eccessivo di contatti con le strutture sanitarie. E, di conseguenza, a un maggior rischio di contagio.

Altro problema molto importante, correlato all’aborto chirurgico in epoca di Coronavirus, è la difficoltà di accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza. In questo periodo, infatti, può essere più complicato entrare in contatto con la struttura ospedaliera e pianificare un percorso di IVG. Così, però, si rischia di superare i limiti temporali previsti dalla Legge 194, che dal 1978 regolamenta questa procedura.

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Come funziona l’aborto farmacologico

Secondo il Ministero della Salute, l’aborto farmacologico va eseguito entro la settima settimana di gestazione, in ospedale o in cliniche autorizzate. Si compone di due fasi. Nella prima fase, la donna deve assumere un farmaco di mifepristone (meglio conosciuto con il nome di RU486). Questo agisce sui recettori del progesterone, cioè un ormone che assicura il mantenimento della gravidanza. Bloccando l’attività del progesterone, il mifepristone causa la cessazione della vitalità dell’embrione. Dopo 36-48 ore da questa assunzione, alla donna viene somministrato un farmaco della categoria delle prostaglandine (il più conosciuto è il misoprostolo). Questo determina l’espulsione del materiale abortivo mediante contrazioni e sanguinamento. Dagli studi effettuati finora è emerso che l’aborto farmacologico è efficace nel 95,5% dei casi.

La proposta dei ginecologi italiani
Affinché si realizzi una piena applicazione dell’aborto farmacologico, i ginecologi delle società scientifiche sottolineano la necessità di rivedere alcuni aspetti delle procedure vigenti. A tal proposito gli specialisti si dichiarano favorevoli a spostare il limite del trattamento da 7 a 9 settimane e a eliminare la raccomandazione del ricovero in regime ordinario dal momento della somministrazione del mifepristone al momento dell’espulsione. Gli esperti chiedono anche di prevedere un unico passaggio nell’ambulatorio ospedaliero o in consultorio per l’assunzione del mifepristone e di favorire la somministrazione a domicilio delle prostaglandine, procedura già in uso nella maggior parte dei Paesi europei.

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