Sarebbero oltre 200 milioni nel mondo e 80mila in Italia, tra cui 7mila minori, le donne che hanno subito mutilazioni genitali, anche nel nostro Paese.
La maggior parte degli operatori sanitari italiani, il 60%, però, considera inadeguata la propria formazione sul tema, e cade in errori e luoghi comuni, come quello secondo cui la pratica viene effettuata per motivi religiosi, quando invece non è prescritta da nessun credo.
A dirlo è uno studio presentato durante un evento organizzato dall’Iss e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma in vista della giornata mondiale di sensibilizzazione contro le mutilazioni genitali femminili (Mgf) che si celebra oggi 6 febbraio.
Un’indagine pilota nazionale, condotta dal Centro di ricerca in Salute globale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, l’Istituto Nazionale e la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà, che ha convocato oltre 300 medici, in particolar modo ginecologi, ostetriche e pediatri, contattati attraverso survey online, e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Reports on Global Health Research.
Sono 5 i luoghi comuni da sfatare, sulle mutilazioni genitali femminili, secondo l’Iss: “sono una pratica musulmana o una pratica religiosa”, “alcune forme sono meno gravi”, “sono praticate solo da persone scarsamente istruite, socialmente svantaggiate o in contesti rurali”, “sono una questione africana” e “praticarle in ospedale riduce i rischi”.
Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni, il Senegal è uno degli stati al mondo con le maggiori percentuali di mutilazioni dei genitali femminili. Nella sola regione di Tambacounda, l’85 per cento delle ragazze e delle donne di età compresa tra 15 e 49 anni ne è stato vittima.
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