L’11 dicembre 2012 esce il libro di Pietro Ferro dal titolo “Leonardo Ferro da Vinci” edito da Arianna Edizioni al prezzo di 11 euro (per maggiore informazioni, consultare il sito www.edizioniarianna.it, con la prefazione di Giovanni Iannuzzo, medico psichiatra-scrittore, nonché Direttore della Comunità Terapeutica Assistita “Fauni” di Castelbuono (PA).
Il libro “Leonardo Ferro da Vinci” è un racconto meraviglioso, una piacevole lettura per tutta la famiglia, la cui storia narrata, ha come protagonista un papà spesso lontano, ma al tempo stesso, un genitore che cerca di proteggere il proprio figlio, parlandogli dell’amore, della mafia, del bene, del male, dell’ignoranza ma anche della giustizia; nell’intento di riuscire ad ingannare il tempo dell’abbandono e lenire così, il dolore causato dalla lontananza.
SINOSSI DEL LIBRO
Un canto d’amore che tenta di esprimere “l’inesprimibile”. Ricorda, solo in alcune modalità, la Lettera a un bambino mai nato. Il tema è differente, s’intenda, là si parlava di una madre, di aborto, di scelta tra la vita e la morte, questo invece è un inno alla vita, la gioia di aver contribuito a darla. È il desiderio di un padre di proteggere il figlio, di parlargli dell’amore, della mafia, del bene e del male, dell’ignoranza e della giustizia per ingannare il tempo dell’abbandono e lenire il mal di lontananza tra un weekend solo e uno con. È il bisogno di assolvere pienamente al ruolo, senza lasciare indietro negligenze, chicchi di grano e neppure il più piccolo frammento del puzzle che rappresenta il percorso, a senso unico, del proprio figlio. È il piacere di anticipare a un bimbo le grandi verità, di indicargli la strada dell’intelletto e dell’amore, rubando a Superman le parole rivolte al piccolo Jeson addormentato, nella speranza che divenga un samurai fedele. Pochi i momenti di rabbia verso la condizione di padre lontano, solo un paradossale richiamo ai felini, agli squali, a esseri privi di amore, di emozioni, che pensano solo a mangiare e a riprodursi e che per questo non soffrono. Ma i sentimenti di sconforto sono mitigati dall’immenso amore per il proprio bimbo.
di Pietro Ferro

Pietro Ferro, padovano, lavora nel campo musicale da oltre 15 anni. Ha realizzato rassegne musicali e si occupa tra l’altro di ufficio stampa e marketing. Ha scritto storie per il fumetto e, su giornali online, brevi racconti e una raccolta di poesie. Si occupa di management e produzioni nel campo artistico-musicale occupandosi di partnership e sponsorizzazioni e dei processi creativi legati ad esse. Ama in maniera viscerale il cinema, è appassionato di tutto ciò che riguarda internet,il mondo tecnologico ed elettronico, ma preferisce ancora di gran lunga l’odore che emana la carta dei libri.
Leonardo Ferro da Vinci è il suo primo libro: una lettera-pensiero totalmente dedita al figlio che non vive con lui.
Il 21 dicembre 2012 alle ore 17.30 presso la Sala Paladin – Palazzo Moroni in Via del Municipio, 1 – Padova, si terrà la presentazione del libro, interverranno:
– lo psicologo, Claudio Tosoncin
– il cantautore, Edoardo De Angelis,
– l’autore, Pietro Ferro
– l’editrice, Arianna Attinasi
Ecco l’invito per quanti decideranno di parteciparvi:
Durante la presentazione sarà inoltre possibile visionare la mostra fotografica “Cattedrali rurali” dell’artista padovano Marco Maria Zanin. La serata si concluderà con un aperitivo di ringraziamento.
Da non perdere!
Qui sotto, il secondo capitolo del libro dal titolo “Il capitano”
Io t’immagino, piccolo corsaro alla ricerca di
un lontanissimo e perduto tesoro. Il filibustiere
di tutti i tempi nel mezzo di una feroce burrasca,
abbandonato dai tuoi codardi compagni di
brigata issi al vento il tuo stendardo e, deciso al
timone, viri la nave verso l’isola chiamata Vita.
La Barcolana a confronto è una regata in cui
gareggiano barchette di cartapesta. Migliaia e
migliaia d’imbarcazioni veleggiano spinte dal
vento in poppa, ognuna con il proprio stendardo
chiaro manifesto alla sete di vita. Con ogni
mezzo e sotterfugio, sfidando sferzanti correnti i
disperati capitani lottano uno contro l’altro e le
imbarcazioni, strette in una morsa stridono scafo
su scafo.
Alcune, ondeggiando impazzite, schizzano veloci
schiantandosi contro piccoli atolli che spuntano
come fiori dal pelo dell’acqua arenandosi: i
loro capitani rassegnati attendono pacati la conclusione
del viaggio, la fine della loro breve vita.
Soli ma carichi di speranza guardano chi li passa
oltre salutando, augurandogli buon viaggio. Lì,
sopra quelle strane oasi morte e vita hanno la
stessa sembianza, il medesimo valore: il volto di
un capitano ma con tratti somatici ben distinti.
Ognuno di loro, milioni di capitani in fuga, ha
un’unica e irripetibile caratteristica. Irrealizzabile
nuovamente. Ribelli, calcolatori, timidi, estroversi,
taciturni, altruisti, vittime, allegri, tristi.
Dai capelli biondi e occhi verdi, rossi e azzurri,
castani e scuri, con la pelle bianca e lentigginosa,
olivastra, con il naso grande, piccolo e a punta,
storto, largo, stretto, delicato e sensibile, goffo o
a patata. Sono capitani uomini e capitani donne.
Poco importa come arriveranno a un agognato
tesoro, conta solo giungere a destinazione. In
qualsiasi modo. Il viaggio è molto lungo ed essere
scaltri o furbi, atletici o dall’imbarcazione imponente
non basta. Bisogna calcolare ogni mossa,
tutti gli spostamenti, le virate. Dove i primi
e coraggiosi capitani si arenano, altri si perdono
lungo la stessa corrente centrando in pieno gli
sconquassati velieri, le misere barche, le fragili
canoe.
Essi partono con i mezzi che madre vita gli ha
donato, anche di fortuna. Per l’ardua traversata
la fortuna ha il nome di Destino.
Mi sembra di vederla, un’arena insolita gremita
di pubblico incitante che dagli spalti urla, schiamazza
e giudica i concorrenti a dar battaglia.
Tra loro, qualcuno dice: «Destino che partisse
così e non arrivasse mai. È stato un capitano
sfortunato e il suo numero non è stato scelto.
Nel sacchetto della tombola ogni estrazione ha
sempre lo stesso noioso e impenitente numero
uno. Uno nella vita, nel lavoro, uno nel mondo».
Perché non si può essere “uno” qualsiasi, soprattutto
alla partenza del primo viaggio, devi
essere il primo ad arrivare. Perfino qua, nell’oceano
dei disperati capitani in fuga, non c’è riscossa
per il secondo posto. Devi eccellere, la medaglia
d’argento è per i perdenti e vale meno dello zero.
Il tesoro nascosto nel cuore dell’isola sarà svelato
al più coraggioso-coraggiosa, all’impavido-impavida,
al concreto-concreta: i capitani sognatori
sono i primi a soccombere.
Una miriade di corpi si accalca lungo le pendici
del monte che scendono nelle viscere dell’oceano
e offrono subdola consolazione ai capitani perdenti.
Un po’ di ristoro e calma, prima di morire.
Qualche altro sceglie la via di terra ma è una
scelta priva di futuro. Il monte è invalicabile e la
sua selva stritola dentro spirali di morte.
Il capitano perfetto, ecco chi brandirà il tesoro.
Colui che ha fame di vittoria, in possesso della
magia che trasforma il tesoro in vita. In luce. In
aria.
Tu hai nutrito speranza di salvezza sin dall’inizio
e hai vinto la regata correttamente: ecco il
capitano filibustiere galantuomo. Non hai giocato
sporco, lo so. Hai combattuto lealmente lasciando
indietro gli avversari, aiutando gli amici
e schiacciando coloro che cercavano la via facile.
La tua pazienza e lealtà ti hanno permesso di
attraversare quell’oceano intriso di ostacoli impensabili.
E, come in un sogno hai brandito la
vita. Così sei diventato il protagonista della tua
consapevolezza. Della tua personalità. Tu c’eri.
Esistevi. Ma com’è possibile, così piccolo eppure
così adulto? Il primo passo verso l’inenarrabile
oceano di trasformazione del cucciolo stupefatto
in “animale” pensante colmo di dubbi e certezze.
Questa è vita, signori.
E nessuno al mondo lo deve negare e se lo fa
vuol dire che non è stato padre e non ha mai
provato la brezza dell’inconfondibile disegno di
un figlio. Sei mio figlio, per questo ti scrivo. Per
rendere conto a me stesso che non c’è nient’altro
che valga oltre il tuo respiro, il primo vagito.
Tutto il resto, ciò che ci gira attorno e non dà
emozioni più della vita stessa, è inutile.
È strano quello che ti fa un figlio. Soprattutto
quando non sei pronto ad averlo. Tutto comincia
a essere più grande, veloce, e devi metterti a
correre. Il respiro si fa affannoso, guardi il test e
le due lineette spregiudicate e impassibili ti urlano:
«Ora sbrigati! Il tuo tempo si è accorciato.
Devi accelerare, è ora di muoversi, scattare per
una gara che ha un inizio ma una fine sconosciuta
». E qua sta il bello. Là sta la verità. Dentro tuo
figlio che deve arrivare. Quella è la tua verità.
Ora sei il burattino condotto a regola d’arte e i
tuoi fili sono tesi e fini ma resistenti perché non
devono spezzarsi.
Il tuo bambino li muove e se sbagli il passo,
salti una piroetta, Mangiafuoco ti getta nel forno
a bruciare. Fare il padre non ammette errori.
Come i capitani coraggiosi partiti e mai giunti
a destinazione. Ogni errore si paga e lo scotto
rimane per tutta la tua sola e fottuta vita.
A volte però, e succede spesso, capita di sbagliare
a causa di un’incomprensione, di una
sciocchezza detta e vestita di parole ispide e allora
c’è un vantaggio a essere padre: il tuo bambino
ti dona baci, carezze, abbracci. Il mondo si
rimpicciolisce e ha la forma di un vagito sereno
perché così è nato mio figlio. Serenamente. E io
l’amo come un tramonto che dà pace e riempie
un cuore vuoto, perché senza di lui per me il sole
non sorge mai e la luna rimane fissa in cielo. Al
mattino, il risveglio non ha un colore, né un sapore.
Sul balcone a est della mia umida stanza l’arcobaleno
non entra mai, si ferma prima a pochi
passi come se cercasse qualcuno che in realtà non
c’è. E io resto lì ad ascoltare e mi pare di sentire
dei battiti che rintoccano solo nella mia testa,
racchiusi dentro mio figlio lontano. Dentro l’inesprimibile.
di Pietro Ferro
Per contattare l’autore scrivere a: p.ferro73@gmail.com