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Da Canada arriva un nuovo studio fatto in laboratorio che rivela che il litio potrebbe aiutare a curare la malattia di Alzheimer. La nuova ricerca infatti, confermerebbe tale ipotesi. In quanto, gli esperti in questione, hanno dimostrato che una microdose di questo componente chimico potrebbe riuscire a fermare la progressione dell’Alzheimer.

Inoltre, la vera novità è che lo riuscirebbe a fare anche negli stadi avanzati della malattia neurodegenerativa.

Già una precedente ricerca, risalente al 2017 aveva dimostrato che l’assunzione di litio può aiutare a prevenire la demenza senile e non soltanto. La ricerca aveva scoperto che le persone che bevevano acqua con alte concentrazioni di litio avevano un rischio inferiore del 17% di sviluppare la demenza, rispetto alle persone che invece ne bevevano con poco litio.

I medici prescrivono il litio per trattare e prevenire episodi maniacali in persone che sono affette da disturbo bipolare, ma anche per altri disturbi, quali, ad esempio, di natura:

– compulsiva,
– schizofrenica,
– depressiva,
– o in alcune malattie psichiatriche che colpiscono i bambini.

Come si assume e quali sono gli effetti collaterali?
Il litio diventa efficace dopo un periodo che va da una a tre settimane dopo la prima assunzione. Può compromettere la capacità di guidare e quella di manovrare macchinari pericolosi. Bisogna tenerne conto.

Ha effetti collaterali che vanno dall’irrequietezza, alla perdita dell’appetito, passando per la perdita dei capelli, all’aumento e la diminuzione dell’appetito, o mal di stomaco, poca sete, fino ad arrivare a dei piccoli movimenti delle mani difficili da controllare e secchezza delle fauci.
Interagisce anche con diversi farmaci, e per tale motivo bisogna sempre informare il medico o lo specialista che se si sta seguendo una terapia anche a base di fitofarmaci, ossia farmaci che contengono principi attivi delle piante.

Il Dipartimento di Farmacologia dell’Università McGill del Quebec in Canada ha voluto capire se microdosi di litio avessero gli stessi effetti anche negli stadi avanzati della malattia. I risultati sono stati molto incoraggianti e pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Alzheimer’s Disease.

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