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Agli inizi degli anni Settanta, lo psicologo Philip Zimbardo divenne famoso per un esperimento di psicologia sociale condotto all’Università di Stanford. L’esperimento consisteva nel reclutare 24 volontari in modo del tutto casuale e studiare il loro comportamento in base al ruolo che veniva loro assegnato. Metà di loro avevano il ruolo di prigionieri e l’altra metà quello di carcerati. A gran sorpresa e contro ogni aspettativa furono costretti ad interrompere dopo 6 giorni l’esperimento perché ognuno di loro si era fin troppo bene immedesimato nella propria parte. L’essere umano in soli 6 giorni era diventato un prigioniero maltrattato o una guardia aggressiva adattandosi senza esitazione ad una situazione a lui sconosciuta in un contesto del tutto nuovo.

Cosa succede se mettiamo un terzo della popolazione mondiale con caratteristiche di vita simile in una casa, che nella maggior parte dei casi non supera i 70 mq, togliendoli dalla routine a cui sono abituati. Cosa succede se improvvisamente chiudiamo scuole, uffici, posti di lavoro, luoghi di aggregazione e costringiamo queste persone a rimanere chiusi nello stesso luogo per un tempo non definito?

Il Covid 19 ha portato l’intera umanità ad affrontare da un giorno all’altro e senza preavviso un enorme esperimento sociale. Uno dei più grandi della storia. E non c’è stato nessuno che è entrato nell’esperimento per interromperlo immediatamente come nel caso di Stanford.

Siamo stati tutti coinvolti e non sappiamo realmente quando esso finirà.

Una cosa è certa. La così detta “normalità”, questa parola così desiderata e celebrata in questo periodo, sembra non essere più la stessa di prima e forse non tornerà nemmeno ad esserlo. Perché? Qualcosa si è insinuato lentamente nelle nostre teste, ha cambiato all’improvviso il nostro modo di guardare alle cose e ha iniziato a dare un valore diverso alla normalità.

Lo si legge negli occhi delle vite sospese dietro alle mascherine, che inghiottiscono ogni sorriso e rendono tutti uguali. Lenti, silenziosi, quasi dei robot, protagonisti di un esperimento messi lì senza permesso né preavviso. Dietro a quei pezzi di stoffa tutti identici gli occhi sono gli unici a urlare, a infrangere quel silenzio oneroso e guardandoli attentamente se ne scorge il frastuono che proviene da ognuno di loro. E quello nemmeno una mascherina riesce a coprirlo.

Che cosa è cambiato?! Il sentimento di isolamento generato da questa pandemia è stato soggettivo, c’è chi lo ha affrontato in maniera più tranquilla e chi invece ha sofferto molto di più di quanto si aspettasse. Le emozioni sperimentate sono state molteplici, ansia, paura, depressione, ma anche riscoperta dei valori lasciati da un pezzo nel dimenticatoio, scoperta di nuove capacità, riflessione interiore. Intera umanità per la prima volta dopo tanto tempo è stata costretta a distogliere lo sguardo dal mondo esteriore per guardare ad uno più complesso, quello interiore.

Un dato certo che emerge da questo “esperimento” è che molti di noi hanno sì paura a tornare alla vita di prima soprattutto per le incertezze lavorative, ma più di ogni altra cosa molti di noi non vogliono tornare alla vita di prima. Adesso che possiamo ricominciare a fare tante di quelle pratiche sociali di cui eravamo molto affezionati in precedenza non vogliamo farlo. Alcuni la definisco Sindrome di Stoccolma, quella relazione particolare tra rapitore e ostaggio per cui, nel momento della liberazione, il prigioniero non vuole ritornare alla vita precedente al suo sequestro. In realtà è cambiata la scala di valori, nuove priorità sono affiorate durante il periodo di quarantena, abbiamo avuto più tempo per pensare, per riflettere su noi stessi e su gli altri e abbiamo capito quanto il tempo sia prezioso. Molti di noi non vogliono tornare a essere dei semplici “burattini” di una società omologata sprecando tempo in attività che non piacciono davvero magari con persone sbagliate. Vogliono che qualcosa cambi, che questa quarantena non sia stata solo un incubo ma un insegnamento su ciò che davvero ha importanza nella vita.

Lo scrittore israeliano David Grossman: «Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui» e «Ci sarà chi, per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza.”

di Francesca Curri

Photo Credit Medici Online.it

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