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In un periodo storico come questo, mai come prima, è importante la presenza fissa di un aiuto psicologico a fianco della popolazione.

L’arrivo di una pandemia mondiale ha spiazzato ciascuno di noi e la necessità principale sorta in questi mesi è stata quella di attribuire un significato a questa nuova realtà. I ritmi di vita, il lavoro, le relazioni e gli affetti hanno subito tutti dei cambiamenti drastici, richiedendo repentine capacità di adattamento.

Può l’avvento di una pandemia mondiale ed il suo impatto sulla vita umana definirsi traumatico? La risposta è sì.

Analizziamo il significato di “trauma”: dal greco “ferita“, identifica solitamente un evento negativo che presenta caratteristiche di imprevedibilità e intensità. Freud lo definiva come “qualsiasi esperienza che susciti una situazione penosa quale paura, ansia, vergogna o dolore fisico”, ossia eventi di una portata tale che diventa difficile per l’Io sostenerne il peso.

Nell’immaginario collettivo quando parliamo di trauma pensiamo subito ad eventi quali incidenti, lutti, abbandoni, abusi, violenze, ovvero tutto ciò che rientra nel quadro delle esperienze emotivamente soverchianti e difficili da gestire senza un aiuto specifico. La pandemia da Covid-19 ha raccolto in sé tutti questi eventi e caratteristiche, portando di fatto all’insorgenza di disagi, sofferenze o talvolta vere e proprie psicopatologie tipiche di un’esperienza traumatica.

Basti pensare ai vissuti esperiti da buona parte della popolazione durante il lockdown, come la minaccia alla propria vita e a quella dei propri cari, la perdita di speranza e di prospettive future, il senso di impotenza, la percezione di cambiamenti irreversibili anche nei più piccoli aspetti della vita quotidiana.

Il Covid-19 ha messo molti di noi di fronte ad una nuova modalità di elaborazione del lutto: in condizioni normali, la dipartita di un caro viene elaborata in modo sano attraverso una serie di riti funebri, religiosi e non, che ci permettono di attraversare le normali fasi psichiche di separazione dalla persona amata, attraverso la condivisione di ricordi, momenti di raccolta e di preghiera collettivi, il funerale. Tutto questo affinché si possa accettare che egli compia il suo ultimo viaggio.

Questi processi di attribuzione di significato alla morte ora vengono bruscamente ridimensionati per via del rischio contagi. Si tratta di fatto di una separazione improvvisa, traumatica appunto, che in molti casi da vita a una forma di “lutto complicato”, ossia una forma di dolore che “si impadronisce” della mente di una persona in modo tale da provocare un senso di blocco. Un vissuto che resta a metà, che potremmo definire un “gap” nel fisiologico processo di elaborazione del lutto.

Non meno importante è il vissuto legato al contagio: chi contrae il Covid-19 infatti si confronta quotidianamente con la paura della morte per una patologia di fronte a cui tutto il mondo si è trovato impreparato e i cui esiti ancora non si conoscono bene. L’essere esposti continuamente ai dati che passano al telegiornale, su internet e sui i social, riguardo al numero delle vittime, induce sensazioni di ansia e angoscia.

“Un corretto aiuto psicologico nell’ambito di una emergenza, evita l’insorgenza di una psicopatologia strutturata. Inoltre investire in Psicologia, oltre a far star meglio la popolazione, fa risparmiare la collettività”, afferma Gianni Lanari, psicoterapeuta responsabile del Pronto Soccorso Psicologico Roma Est.

D’accordo con Lanari è Maria Giovanna Ginni, psicologa del Pronto Soccorso Psicologico “Roma Est” che dice:

“Vivere l’isolamento forzato in seguito a contagio mette il soggetto di fronte ad un senso di estraneità mai provato prima: la sensazione riportata da alcuni pazienti è quella di sentirsi ‘sporchi’, infetti, pericolosi per gli altri. L’ansia collettiva inoltre genera spesso una pressione sul contagiato facendolo sentire in colpa per essere un ‘untore’ o addirittura per essersi ammalato. Alcuni pazienti che hanno contratto il Covid-19 hanno riferito come “traumatica” l’assenza di empatia di chi gli stava accanto, e ci sono stati casi in cui essi stessi si sono sentiti in dovere di contenere la paura e la rabbia di chi era attorno a loro”.

È facile immaginare che vissuti del genere su persone che hanno una certa predisposizione alla psicopatologia hanno trovato terreno fertile per lo sviluppo di episodi depressivi, disturbi dell’umore, attacchi di panico, disturbi post-traumatici da stress, in alcuni casi anche suicidi.

La letteratura oggi disponibile individua dei fattori di rischio e dei fattori protettivi legati allo sviluppo di disagi psicologici o vere e proprie psicopatologie legate alla pandemia da Covid-19.

Sembra che tra i fattori di rischio vi siano:

– la residenza in zone intensamente colpite dall’evento traumatico;

– il sesso femminile;

– l’isolamento;

– le difficoltà economiche;

– i lutti;

– un pre-esistente ambiente familiare violento;

– preesistenti disturbi psichici non attenzionati.

Tra i fattori protettivi, invece, rientrano:

– il possesso di strategie individuali funzionali all’adattamento agli eventi;

– la presenza sul territorio di strutture e sistemi di supporto alla persona e alla collettività.

Sebbene la condizione di isolamento ed i cambiamenti nella vita quotidiana legati alla pandemia hanno provocato senza dubbio notevoli sofferenze alla popolazione su diverse fasce d’età, un occhio di riguardo va ai professionisti della salute.

Coloro che svolgono il lavoro più importante nella lotta contro il virus sono i medici, gli infermieri e tutto il personale ospedaliero che lavora a stretto contatto con i contagiati e le loro gravi condizioni. Molti di essi raccontano di vivere un incubo quotidiano, dal momento in cui indossano il camice e i dispositivi di protezione individuali fino al momento in cui possono tornare a casa.

In questo lasso di tempo essi svolgono turni massacranti, spesso costretti a non riposare, a stretto contatto con la malattia ed il rischio di contagio, faccia a faccia con la morte. Dunque uno stress non di poco conto, sia su un piano fisico che su quello psicologico. Gli operatori sanitari sono fra coloro che più di tutti sono esposti al rischio di sviluppare il disturbo post-traumatico da stress (DPTS).

Il DPTS consiste nella presenza di sintomi intrusivi come ricordi involontari di un evento traumatico, sogni, flashback e nello scatenarsi di reazioni di intensa sofferenza accompagnate da manifestazioni somatiche neurovegetative. Esse si manifestano in seguito all’esposizione a stimoli che possono ricordare anche indirettamente l’esperienza traumatica.

La persona con DPTS solitamente presenta ruminazioni mentali collegate all’evento traumatico e vive costantemente sentimenti negativi e colpevolizzanti verso sé stesso. Evita stimoli che possano essere collegati all’evento come luoghi, persone, attività, ma anche esperienze soggettive come ricordi e pensieri. Da un punto di vista psico-biologico, l’individuo con DPTS vive alterazioni vegetative insorte dopo il trauma e che l’organismo non è in grado di gestire, perdendo così la condizione di omeostasi precedente all’esposizione traumatica.

A queste condizioni di per sé già difficili, si aggiungono le alterazioni dell’umore in senso negativo, dal momento che il soggetto riferisce di sentirsi privato di emozioni e pervaso da un senso di inutilità, sperimentando anche notevoli difficoltà a fidarsi degli altri.

Un operatore sanitario, oltre ad essere sempre attivo affinché non vengano commessi errori nei protocolli di cura e riabilitazione dei malati Covid, si fa carico della sofferenza del paziente. In molti casi resta vicino al soggetto grave, condividendo con lui gli ultimi momenti della vita, facendosi spesso portavoce di comunicazioni fra il malato e la sua famiglia.

Il lavoro sanitario è proprio fra quelli che con più facilità possono portare anche allo sviluppo della sindrome da burnout, ossia un esaurimento emotivo caratterizzato da stanchezza, cattivo umore, disturbi del sonno e in casi più gravi derealizzazione e depersonalizzazione.

La Condizione Traumatica del Soccorritore (Secondary Traumatic Stress Disorder o Compassion Fatigue) è una condizione che consiste in una particolare forma di disagio, tipica della relazione di aiuto “soccorritore-vittima” che si crea quando viene richiesto che le cure siano indirizzate per primo alle vittime primarie e dopo a quelle secondarie (in questo caso i soccorritori appunto). Questo tipo di trauma è stato studiato dalla medicina soprattutto nei periodi di guerra o durante catastrofi come terremoti, incidenti aerei o grandi incendi. Tutte situazioni che richiedono uno specifico addestramento.

Sebbene la società descriva il professionista ospedaliero come un eroe, in realtà poco si conosce di quanto si cela dietro un lavoro così importante. Uno studio cinese effettuato durante l’inizio della pandemia (gennaio 2020) che ha coinvolto 1257 operatori sanitari che hanno assistito pazienti in reparti Covid-19 e in reparti posti in seconda e terza linea, ha riportato percentuali importanti di depressione (50%), ansia (44,6%), insonnia (34%), e distress (71,5%) con particolare severità per infermieri, donne, operatori in prima linea e lavoratori nella città epicentro. Evidenze analoghe sono emerse già durante l’epidemia da SARS-1 del 2003, in cui gli operatori sanitari temevano particolarmente il contagio e l’infezione della famiglia, degli amici e dei colleghi. Essi hanno avvertito incertezza e stigmatizzazione, quest’ultima legata alla paura del contagio da parte di chi era loro intorno.

Anche in Italia molti operatori hanno avvertito il peso della stigmatizzazione ed il senso di responsabilità per il loro contatto frequente con i malati infetti; per questo motivo molti hanno “scelto” una forma di isolamento all’interno di alcuni centri appositi condivisi solo con colleghi e quindi lontano dai propri affetti.

Detto questo, è legittimo immaginare come il peso della crisi generata dal Covid-19 possa avere un impatto negativo anche nel lungo periodo sul benessere psicofisico dei sanitari e dell’intera popolazione, colta impreparata da un evento di tale entità.

Per la tutela della salute mentale ed il contenimento dell’impatto emotivo che questo evento ha avuto sulla popolazione, sono partite diverse iniziative per fornire supporto psicologico.

Fra queste, quella del Pronto Soccorso Psicologico “Roma Est” (www.pronto-soccorso-psicologico-roma.it) è in prima linea nell’offrire un servizio di qualità.

L’aiuto è offerto in 18 lingue, da una rete di 244 psicologi presenti in tutte le regioni italiane e in 15 paesi esteri (Regno Unito, Hong Kong, Messico, Russia, Argentina, Grecia, Kenya, Brasile, Portogallo, Romania, Giordania , Azerbaijan, India, Spagna, Svizzera).

Per contattare il servizio telefonare al n. 06 22796355 o al n. 349 1874670, o collegarsi al sito www.pronto-soccorso-psicologico-roma.it.